Hanami all'Orto Botanico


Il Museo Orto Botanico Sapienza Università di Roma in collaborazione con Festival del Verde e del Paesaggio presentano
Hanami all’Orto Botanico 12 – 13 aprile 2025

Il Museo Orto Botanico di Roma, in occasione della fioritura dei ciliegi del giardino giapponese, celebra con un evento dal titolo «Hanami all’Orto Botanico» l’idea di Natura che permea la cultura giapponese e ne definisce la sua estetica.

Nella contemplazione dei ciliegi in fiore e di quella bellezza tanto sorprendente quanto effimera, è racchiuso uno dei concetti che più profondamente attraversa il pensiero giapponese, quello dell’impermanenza dell’esistenza.

L’antica attitudine degli abitanti del Sol Levante a godere e accettare la caducità e la provvisorietà dell’esistenza in quanto tale, la sensibilità ad abbracciare nella struggente bellezza dell’hic et nunc, la malinconia della fine.

Comprendere questo aiuta a spiegare il perché in tutto il mondo sia così diffusa e amata la “cultura Sakura” e la visione giapponese della Natura, amplificata anche da una meravigliosa varietà lessicale che ne racconta dettagli e particolarità.

Hanami 花見 guardare i fiori è un termine che si riferisce alla tradizionale usanza giapponese di godere della bellezza della fioritura primaverile degli alberi, in particolare di quella dei ciliegi.

Il delicato e sorprendente fiorire dei sakura 桜 (il cui kanji proviene dal carattere cinese che indicava yusura-ume ovvero «il ciliegio di Nanchino»), in Giappone segna l’inizio di tutto: dal calendario scolastico e fiscale all’inaugurazione dell’anno accademico nelle università alle nuove esperienze di vita.

La loro bellezza e la subitanea decadenza, rappresenta la metafora della vita stessa e racconta la relazione profonda che lega l’uomo alla Natura.

Nella cultura giapponese la natura è madre e maestra, guida e origine di tutto, compreso l’uomo.
Lo Shintō insegna che la natura è animata da entità soprannaturali misteriose e sfuggenti che vi risiedono, dotate del potere di creare e distruggere. Entrare in contatto con i Kami vuol dire entrare in contatto con noi stessi. Riprodurre il mondo puro della natura, imitandone i processi, porta al perfezionamento spirituale. Quando si modella un bonsai, un ikebana, un suiseki – rappresentazione della nostra arcaica appartenenza alla natura – modelliamo noi stessi, una diversa sostanza di noi stessi.

Un secondo filo rosso guida questo evento: il wabi sabi. Due parole che insieme esprimono una filosofia di vita, un sentire e un modo di stare, orientarsi nel mondo, apprezzarne la bellezza autentica che privilegia l’imperfezione, il divenire e la transitorietà, suggerendoci nuovi sguardi per leggere la quotidianità.

«Hanami all’Orto Botanico» è un evento che mette al centro la fine capacità giapponese di osservare la Natura e partecipare emotivamente al suo mondo. Invita i visitatori ad esplorare la compenetrazione dei concetti di natura e bellezza onnipresenti in questa cultura. Li accompagna lungo un percorso libero, fatto di mostre, momenti di condivisione e dialogo, bagni nella foresta, visite guidate, laboratori per bambini.

Sabato 12 aprile


Forest bathing all’Orto Botanico, stazione sperimentale urbana di terapia forestale. 
Il Forest Bathing o Shinrin Yoku, è una rigenerante pratica di terapia naturale che invita a rallentare, connettersi con la natura, liberare la mente, lasciarsi guidare solo dai sensi. Sarai guidato da Claudio Scintu in una passeggiata guidata, lenta e consapevole nel bosco di conifere, tra alberi di essenze diverse ma tutti con il potere di abbassare il cortisolo, riducendo lo stress e la pressione sanguigna. Con gli occhi chiusi sarai pronto ad annusare gli olii essenziali che si levano nell’aria,  respirare profondamente e radicarti al qui e ora.

Forest bathing e la relazione con la natura
La cultura giapponese sottolinea la necessità di armonia ed equilibrio nel rapporto tra uomo e natura perché siamo tutti parte dell’universo. E ciò si riflette nella vita quotidiana, nella comprensione degli altri esseri viventi o nella speciale devozione del popolo giapponese verso il cambiamento delle stagioni celebrato con Hanami in primavera o con il Momijigari in autunno. Ma soprattutto nell’ammirazione del mondo naturale e nella consapevolezza dei suoi poteri benefici.

Forest bathing e biofilia
L’idea dello shinrin yoku – basato su antiche pratiche scintoiste e buddiste – è di far entrare la natura nel corpo attraverso i cinque sensi per un immediato beneficio del corpo, della mente e dello spirito. Questo perchè noi esseri umani ci siamo evoluti nella natura ed è proprio lì che ci sentiamo più a nostro gio, anche se non ne siamo sempre consapevoli. È l’ipotesi biofilia. Abbiamo trascorso il 99,9% del nostro tempo nella natura e la nostra fisiologia è specificamente adatta a quel contesto. Nella vita quotidiana se i nostri ritmi sono sincronizzati con quelli dell’ambiente che ci circonda, ci sentiamo meglio.

Il Taiko No Koe all’Orto Botanico
Energia e vibrazioni, tra eleganza, potenza dei movimenti, sincronie, improvvisazioni.
Questo il “manifesto” del concerto-spettacolo di percussioni giapponesi del Gruppo Taiko, primo gruppo italiano di tamburi giapponesi. Ne fanno parte, Catia Castagna attrice e percussionista, Marilena Bisceglia percussionista e aikidoka e Daniela Anzellotti.

Eleganza e potenza dei movimenti, precisione nell’esecuzione con spazi dedicati a piccole e “giocose” improvvisazioni ma senza la pretesa di “essere giapponesi”.  Questa è una tecnica  “contaminata” dalle precedenti esperienze artistiche delle due percussioniste.

Il taiko nella cultura giapponese
Questa potente forma d’arte, vecchia di 12.000 anni, è stata una parte vitale della cultura giapponese per millenni. I taiko, letteralmente “grande tamburo“, venivano usati nelle feste locali, per dare inizio a cerimonie religiose, impostare il ritmo di marcia delle truppe in guerra o per incoraggiare  i soldati durante i combattimenti.

Si diceva infatti che i battiti del cuore si sincronizzassero con il ritmo del tamburo per aumentare la forza dei guerrieri. Il taiko scandiva  anche la vita quotidiana: annunciava il rientro dei cacciatori al villaggio, l’arrivo dei tifoni.  Nel suo suono rimbombante, gli antichi potevano percepire il potere della divinità.

Ancora oggi, il taiko rimane un fenomeno che cattura tutti i sensi. Quando viene colpito con forza, può produrre  un fragore che supera i 130 decibel,  paragonabile quasi al rumore di un jet. Il pubblico può sentire questo fragoroso battito vibrare in tutto il corpo, per un’esperienza immersiva e indimenticabile.
Vivere l’esperienza del taiko significa assistere a grida vivaci e movimenti coreografati da artisti che rispecchiano quelli di varie arti marziali giapponesi.

L’energia parte, trapassa e ritorna, in un circuito continuo, perché come dice il maestro Kurumaya Masaaki, la pelle del tamburo è uno specchio che riflette ciò che si fa, quindi se si suona con il cuore (kokoro) si trasmettono e si ricevono emozioni, facendo vibrare l’anima di chi ascolta.

Il Kendama all’Orto Botanico
Vuoi imparare a giocare con il kendama? Davide Leonardi, campione europeo e mondiale in kendama freestyle, è pronto a insegnare le basi e i primi trucchi di questo tradizionale gioco giapponese che da 400 anni, allena coordinazione, concentrazione e creatività.

Il Kendama nella cultura giapponese
Si potrebbero pensare che il kendama sia stato inventato in Giappone, ma in realtà non è così. Sebbene esistano teorie diverse, ci sono documenti che indicano che il kendama sia nato in Francia nel sedicesimo secolo.
Questo gioco era chiamato bilboquet. Bil significa “palla” e boquet significa “piccolo albero” ad indicare un gioco con una piccola palla di legno.

Si dice che il bilboquet sia stato portato in Giappone verso la metà del periodo Edo, intorno al 1777 o 1778. A quel tempo, il kendama era apparentemente apprezzato dagli adulti come una specie di gioco in cui un giocatore che commetteva un errore era costretto a bere di più.

Quando il Giappone entrò nell’era Meiji (1868-1912), il Ministero dell’Istruzione, della Scienza, dello Sport e della Cultura introdusse il kendama nel rapporto sull’istruzione dei bambini che aveva redatto nel 1876 e il gioco iniziò gradualmente a diffondersi tra i giovani.

Nel 1919, durante l’era Taisho (1912-1926), fu messo in vendita il precursore del kendama odierno. Si chiamava Nichigetsu Ball (palla sole e luna), perché la palla assomigliava al sole, mentre la forma delle tazze basse era come una luna crescente. Questo giocattolo ebbe un enorme successo e da quel momento fino all’inizio dell’era Showa (1926-1989), apparvero diversi tipi di kendama.

Dal 1945 al 1955 circa, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i kendama cominciarono ad essere venduti nei negozi di dolciumi insieme ad altri giocattoli popolari, come menko , bidama e beigoma.

Nel 1975, l’autore per bambini Issei Fujiwara fondò la Japan Kendama Association, che standardizzò il kendama per l’uso competitivo e creò regole standardizzate allo scopo di consentire a un maggior numero di persone di giocare insieme allo stesso modo. Con un set di regole e specifiche per l’attrezzatura in atto, il kendama ha iniziato a crescere in popolarità come sport competitivo.

Oggi la parola kendama è conosciuta in tutto il mondo e le competizioni si svolgono anche negli gli Stati Uniti e in Europa.

L’origami all’Orto Botanico
Vuoi scoprire l’arte tradizionale giapponese che trasforma un semplice foglio di carta in meravigliose creazioni tridimensionali? L’ Associazione Kanyukai  – fondata nel 2003 a Osaka, in Giappone e promotrice dal 2021 della cultura giapponese in Italia –  ti aspetta per insegnarti  questa antica pratica, originariamente nata per la decorazione di templi e santuari.

L’origami nella cultura giapponese
La parola origami deriva da “ori”,  piega, e “kami”, a carta. L’origami è l’affascinante pratica giapponese di trasformare la carta in forme intricate che spesso raffigurano vari oggetti, come fiori o uccelli. Oltre alla sua arte, il fascino dell’origami risiede nella sua filosofia estetica unica. Celebrando il minimalismo nell’arte, riflesso nel termine shibumi (渋味), l’arte dell’origami trasforma il modesto in bello. Il washi, fragile ma temporaneo, rispecchia la vita e gli artisti dell’origami si sforzano di catturarla in forme tangibili, orientandosi verso oggetti naturali piuttosto che inanimati.
 Ispirandosi alla ricca tradizione estetica giapponese, realizzano straordinari origami, dinamici e realistici al tempo stesso: una vera e propria espressione artistica di alto livello.

La storia dell’origami
Il viaggio dell’origami risale all’introduzione della carta in Giappone, che si ritiene sia avvenuta subito dopo la sua invenzione in Cina. I monaci buddisti, imprenditori e visionari, importarono tecniche e prodotti per la fabbricazione della carta durante il periodo Heian (794-1185). Inizialmente riservato a scopi religiosi a causa dell’elevato costo della carta, l’origami si diffuse rapidamente, diventando una pratica culturale. I nobili Heian elevarono questa forma di artigianato ad una vera e propria arte, utilizzando  carta washi dipinta a mano o stampata, per incartare i regali. Nella corte imperiale, l’origami si trasformò in un’attività ricreativa elegante e divertente, permeando infine la vita di tutti i giorni.

I benefici dell’origami
Praticare l’origami si rivela un’attività benefica e salutare per il benessere sia mentale che fisico. La natura meditativa  del piegare la carta non solo serve come antistress, ma contribuisce anche a migliorare la coordinazione occhio-mano. L’aspetto creativo dell’origami favorisce una spinta alla creatività, mentre la pazienza e la perseveranza richieste per padroneggiare pieghe intricate facilitano la propria resilienza. Inoltre, il valore educativo dell’origami è degno di nota, poiché promuove l’apprendimento attraverso la padronanza di diverse tecniche di piegatura.

Lo shodō all’Orto Botanico
Vuoi scrivere il tuo nome in giapponese? o una parola che evoca un sentimento, un’emozione? Le Maestre calligrafe dell’Associazione Tondo Rosso – scuola di lingua e cultura giapponese a Roma e online da più di 15 anni –  ti mostreranno la scrittura shodō.

Il termine giapponese è spesso tradotto come “il modo della scrittura artistica o della bella scrittura” o come “l’arte della calligrafia tradizionale giapponese”. Ma è molto più di questo.
La pratica dello Shodo non è la semplice pratica dello scrivere qualcosa a mano in modo elegante e raffinato affinchè ogni parola sia unica e piacevole alla vista. Racchiude una profonda esplorazione dell’espressione artistica radicata nella cultura giapponese. È una vera e propria arte.

Il termine shodō 書道  significa “via della scrittura”, dove 書sho indica “la scrittura” e il carattere 道 è tradotto come “via, percorso”. Sottolinea la pratica di un’arte che richiede un impegno costante e che assume le caratteristiche di un “percorso”. Tale via conduce il praticante, tramite un perfezionamento tecnico, soprattutto ad un affinamento interiore. L’artista crea un’opera d’arte con un pennello di bambù, inchiostro e carta, dove egli trasferisce armonia e bellezza. Quindi, non si tratta solo di bella calligrafia, ma anche di tracciare dei tratti traferendo in essi la forza dell’artista e del suo spirito.

Lo shodō nella cultura giapponese
Lo shodō ebbe origine in Cina e sviluppò tutte le sue forme base entro la fine della dinastia Han nel 220 d.C. Fu poi introdotto in Giappone durante il VI secolo d.C. Si dice che lo shodo abbia guadagnato popolarità quando il buddismo fu introdotto in Giappone dalla Cina e i caratteri cinesi furono usati per copiare i mantra buddisti.
Questa trascrizione di caratteri, nota come shakyō, era considerata una forma di meditazione e la pratica portò alla diffusione della calligrafia all’epoca.
Nel profondo, la filosofia dello shodō trae ispirazione dal buddismo zen, sottolineando il ruolo fondamentale della consapevolezza e della concentrazione. Queste qualità essenziali sono fondamentali per la pratica della calligrafia e risuonano profondamente nel regno della meditazione.
Durante il periodo Edo, gli insegnamenti del Bushido, o la via del guerriero, ponevano la stessa enfasi sullo shodō e sulla letteratura come sulla guerra e sulle tattiche. Si credeva anche che lo shodō fosse un’espressione diretta della vera natura dello scrittore, in altre parole, i personaggi e lo scrittore diventavano una cosa sola.
Lo shodō svolge un ruolo molto importante in Giappone, dove i suoi caratteri sono considerati dotati di una sorta di potere spirituale. In Giappone, la pratica di scrivere caratteri con pennello e inchiostro è parte integrante da secoli. Originariamente considerata essenziale per comprendere la letteratura classica e le credenze buddiste, si è evoluta in un mezzo per sviluppare la disciplina mentale.
Oggi, molti praticanti vedono lo shodō come un’attività terapeutica e meditativa, che offre un modo per rilassarsi e raggiungere la concentrazione manipolando un semplice pennello di bambù. Ogni carattere diventa un’espressione unica, plasmata da aggiustamenti di pressione, angolazione del pennello, velocità del tratto e flusso di inchiostro. L’arte si estende oltre la trasmissione del significato attraverso il linguaggio; incapsula l’emozione e riflette lo spirito dello scrittore, creando un’armoniosa miscela di estetica giapponese e arte linguistica.

I manga all’Orto Botanico
Sei un appassionato di manga? vuoi avvicinarti a questa antica e moderna tecnica giapponese di narrazione? Segui il workshop di Federico Pace e scopri come realizzare personaggi ispirati allo stile grafico giapponese e come creare una storia accattivante!
Federico Pace ha studiato fumetto e manga alla Scuola Internazionale di Comics con Midori Yamane e vive e lavora a Roma. Ha pubblicato diversi manga in Italia, in particolare per Tora edizioni, ma è noto tra i giovani lettori del fumetto giapponese, anche per illustrazioni e autoproduzioni. Con il suo sguardo e la giovana voce, interpreta e traduce i grandi temi della nostra società.

I manga nella cultura giapponese
Manga si riferisce a due parole Kanji: “Man” che sta per “divertente”, “esagerato” e “Ga” che può essere interpretato come “disegno” o “immagine”. Quindi, il termine manga può essere definito come uno ” schizzo veloce “, un “disegno approssimativo” o un “fumetto”. Il manga ha particolari codici grafici , tra cui l’uso del bianco e nero e delle vignette. Rispetto ai libri occidentali, la direzione di lettura giapponese è invertita.
Esistono molti tipi di manga, adatti a diversi tipi di pubblico: manga di Komodo, un fumetto per bambini simile a Pokemon e Doraemon; manga shonen rivolto agli adolescenti, presenta le avventure di un eroe orfano e le sue battaglie (come in Naruto o Dragon Ball); manga shojo destinato principalmente alle ragazze, si concentra sulle storie d’amore e di amicizia di studentesse (come Nana); manga seinen per studenti o giovani adulti con argomenti più realistici di vari temi come (Death Note o L’attacco dei Titani); josei manga, la versione femminile del seinen (Citrus).

La storia dei manga
Le origini del manga risalgono agli emaki, i primi rotoli narrativi illustrati del periodo Nara dell’VIII secolo, e agli ehon, libri stampati ukyo-e del periodo Edo. Nel 1814 il famoso artista Hokusai, noto per la sua opera d’arte La grande onda di Kanagawa, usò il termine “manga” per esprimere l’idea di disegni catturati sul posto. Era una raccolta di illustrazioni – Hokusai manga– che includeva scene di vita quotidiana, paesaggi, elementi naturali, rappresentazioni della mitologia giapponese come gli spiriti giapponesi.
Durante il periodo Meiji, quando la politica di isolamento del Giappone giunse al termine, le influenze occidentali divennero sempre più forti. Fu l’inizio della modernizzazione giapponese, ispirata dai modelli economici e industriali occidentali cui seguì l’evoluzione sia dell’arte che delle altre forme di espressione.
Il primo vero manga fu pubblicato nel 1902. Un fumetto umoristico, pubblicato sul giornale Jiji Shinpō . Il suo autore, Rakuten Kitazawa , aveva illustrato “The Watered Sprinkler” , un famoso cortometraggio francese dei fratelli Lumière. Fu il primo a riutilizzare il termine manga dopo Hokusai. E per la prima volta apparve anche il termine mangaka .
Influenzato dalla stampa satirica anglosassone, fondò la sua rivista, la Tokyo Puck . Per le sue vignette feroci e numerose opere come Kodomo no tomo o Shōnen Kurabu (il club dei ragazzi), Kitazawa fu considerato uno dei fondatori del manga .
Negli anni ’40, i manga furono utilizzati a fini propagandistici dal governo giapponese. E solo dopo la seconda guerra mondiale, questo fenomeno esplose a causa dell’influenza dei fumetti americani. Il manga divenne un modo di evasione, soprattutto per coloro che dovevano affrontare grandi difficoltà.
Nel 1955, le edizioni si moltiplicarono e le librerie di fumetti si svilupparono in Giappone. Anche se il mercato dei manga era in piena espansione, veniva ancora criticato per essere un po’ infantile.
Due anni dopo, fu creato un nuovo stile che rifletteva realtà più oscure, mirato ai giovani adulti. Il manga gekiga fu inventato da Tatsumi Yoshihiro. Il mondo dei manga continuò a diversificarsi finta raggiungere il suo apice alla fine del XX secolo grazie alla sua massiccia diffusione.

Creazione di vasi per Shitakusa e Ikebana all’Orto Botanico
Vuoi avvicinarti all’arte della ceramica giapponese? Con la ceramista Rosa Turco di Kansoceramica scoprirai l’antichissima tecnica tebineri e vedrai come si realizzano piccoli vasi per shitakusa (le erbette da compagnia per i bonsai nel tokonoma) e per ikebana. E se vorra,  potrai cimentarti nella creazione di un piccolo oggetto.

La tecnica tebineri
La tecnica tebineri è uno stile primitivo che rinuncia al lancio dell’argilla sulla ruota da vasaio e si affida principalmente alle dita per la modellazione, senza l’ausilio di altri utensili. Sebbene non permetta la realizzazione di opere di grandi dimensioni, consente di creare oggetti dalla bellezza rustica ma soprattutto di connettersi in maniera più diretta con l’argilla e con la propria immaginazione.

Le bambole kokeshi all’Orto Botanico
Dalle antiche kokeshi della regione del Tōhoku alle creazioni moderne della prefettura di Gunma, dagli omiyage kokeshi (souvenir) ai grandi maestri del dopoguerra. Esplora il mondo magico delle bambole kokeshi, un’antica pratica popolare intrisa di arte e spiritualità. E scopri come si è trasformata fino ai giorni nostri. Ad accompagnarti in questo viaggio, KimonoFlaminia, un negozio on line nato dalla passione della sua fondatrice Flaminia Pirozzi, per il Giappone e specializzato in arte, moda e design del Sol Levante. Collabora con istituzioni, musei, teatri, costumerie di cinema.

Le bambole kokeshi nella cultura giapponese
Le bambole Kokeshi hanno un profondo significato simbolico nella cultura giapponese. Intagliate nel legno, simboleggiano tradizionalmente buona fortuna, protezione e un augurio per la crescita sana di un bambino. Le loro forme semplici e arrotondate e i disegni dipinti a mano riflettono purezza e fascino, catturando il calore del patrimonio artistico giapponese. Per molti, possedere una bambola Kokeshi rappresenta un legame con la tradizione giapponese e un simbolo di positività e benessere.

Le bambole Kokeshi non hanno alcun legame formale con la religione shintoista o organizzata, ma poiché la spiritualità della regione è sempre stata intrinsecamente connessa con le foreste, il culto della natura e l’animismo, queste bambole di legno erano senza dubbio un’importante ancora di vita nei villaggi di montagna.

Hanno avuto origine nella regione di Tohoku, nel Giappone settentrionale, durante il periodo Edo (1603-1868). Gli artigiani di questa zona, noti per le loro abilità nella lavorazione del legno, iniziarono a realizzare queste bambole di legno uniche come giocattoli per bambini. Nel tempo, le Kokeshi sono diventate una forma d’arte celebrata per la loro bellezza minimalista. Ogni regione di Tohoku ha portato il proprio stile e le proprie varianti alle bambole, aggiungendo diversità e fascino da collezione. Oggi, le Kokeshi sono amate sia come artefatti culturali che come simboli dell’artigianato duraturo del Giappone.

Esistono undici tipi principali di bambole Kokeshi tradizionali, ciascuna delle quali presenta caratteristiche uniche che riflettono il patrimonio culturale della sua regione. Originariamente create come souvenir nelle città termali giapponesi di Tohoku dagli artigiani locali, le bambole Kokeshi catturano il fascino e lo spirito delle loro aree. Ogni tipo ha il suo stile, forma e motivi dipinti distinti, che rappresentano le tradizioni della sua specifica regione.

Kokedama all’Orto Botanico
Forse già saprai cos’ è un kokedama, ma forse non conoscerai il metodo tradizionale di giapponese con la quale viene creata. Con Kokedamanti scoprirai i segreti di questa antica arte che prevede l’utilizzo di un terriccio (Ketotsuchi) e una argilla (Akadama) particolari, perfette per questa coltivazione. Farai un salto nella storia del Giappone nel periodo Edo. Imparerai quali sono i materiali e le piante più adatte, come curarle e gestirle.

I kokedama nella cultura giapponese
Le Kokedama, o “palla di muschio”, è un’antica forma d’arte giapponese derivata dalla pratica del bonsai. La bellezza delle radici esposte del bonsai, che accumulano muschio nel tempo, è stata l’ispirazione dietro il kokedama. Era colloquialmente chiamato “il bonsai del povero” perchè un modo più semplice e conveniente per le persone di godersi la tranquillità di un giardino giapponese nelle loro case.
Il concetto di kokedama è nato come una forma di connessione con la foresta per i giapponesi che si spostavano dalle campagne e andavano a vivere in città. La mancanza di vasi artificiali attorno alla pianta imita gli ambienti naturali in cui crescono le piante e incarna l’idea di madre natura come autosufficiente. Nella cultura giapponese, il muschio simboleggia la longevità, qualcosa che prospera nel tempo ed è in armonia con l’ambiente circostante.
Queste sfere di natura sono un perfetto riflesso del wabi-sabi  che si traduce liberamente come trovare la bellezza nelle imperfezioni naturali. Creata a mano, una palla di terra deforme che racchiude una pianta asimmetrica viene poi avvolta nella coperta della natura. Questa antica forma d’arte si è nel tempo evoluta.
Le persone hanno sperimentato diversi modi per esporre le loro palle di muschio, sospendedole in aria o poggiandole su terrari.
Gli studi hanno dimostrato che come molte piante da interno anche le kokedama possono assorbire anidride carbonica, rilasciare ossigeno tramite fotosintesi e rimuovere gli inquinanti.

“Il giardino giapponese dell’Orto Botanico di Roma” è un’agile guida, vera e propria introduzione al giardino giapponese dell’Orto Botanico di Roma e alla sua contemplazione al momento della fioritura dei ciliegi (Hanami). Il giardino progettato dall’architetto Nakajima nel 1990 su incarico dell’Imperatore del Giappone.

Il giardino giapponese dell’Orto Botanico
Possiamo definire il giardino giapponese come uno spazio in continuità con l’ambiente circostante. Uno stilema compositivo, un modo tutto particolare di comporre/scrivere lo spazio del giardino. Il riconoscimento della progettazione dei giardini come forma artistica, è avvenuto in Giappone tra la fine XI sec. e la seconda metà del XII, periodo nel quale i principi estetici sono stati codificati in un trattato, il Sakuteiki (Annotazioni sulla composizione dei giardini). Il Sakuteiki rappresenta quindi una precoce consacrazione del giardino come forma d’Arte.

Il giardino giapponese – circa 3500 mq – progettato dall’architetto Nakajima nel 1990 su incarico dell’Imperatore del Giappone, rientra nella tipologia Tsukiyama (piccola collina). A differenza dei giardini da contemplazione monastici (Kare-sansui) che hanno punti di vista fissi, qui il percorso guida il visitatore attraverso alcune scene focali. Si sviluppa su due livelli collegati tra loro da una cascata e piccoli torrenti che formano due laghetti, uno inferiore e uno superiore. Sotto l’Azumaya, il padiglione in legno di cedro archetipo della capanna tradizionale del giardino orientale, lo sguardo si posa sulla città di Roma.

La tecnica compositiva è quella del “paesaggio preso in prestito” o Shakkei, che fa comprendere l’atteggiamento giapponese nei confronti del giardino e accogliere le vibrazioni della natura e del paesaggio creando un luogo in cui mondo reale e immaginario coincidono.

Le 60 specie vegetali presenti – tra cui Acer palmatum, Acer buergerianum, Magnolia stellata, Cerasus serrulata, Kerria japonica, Dhalia imperialis, Camelia japonica – sono emblematiche del giardino giapponese.

Oltre ad avere una valenza filosofica, poetica ed artistica, richiamano lo scorrere delle stagioni, in particolare in primavera la fioritura dei ciliegi viene celebrata dall’Hanami. Nella loro disposizione c’è il preciso intento di conferire naturalezza alla mano dell’uomo, l’Autore cerca di riflettere lo stato d’animo di chi osserva, accompagnandolo alla riscoperta del rapporto intimo tra uomo e natura.

Il libro è presentato dai suoi autori, Paco Donato, Silvana Mattei, Flavio Tarquini e l’editore Lorenzo Casadei.

Lorenzo Casadei è autore e traduttore, dal 2004 dirige la Collana Porte d’Oriente della CasadeiLibri dove ha tradotto tre libri di Veronique Brindeau: Elogio del muschio, Hanafuda il gioco dei fiori e Il sentiero che porta alla casa del tè. Dal 2019 è direttore responsabile della rivista di studi tradizionali giapponesi dell’Aikikai d’Italia, AIKIDO, rivista per la quale ha scritto numerosi articoli sull’arte dei giardini.

I manga all’Orto Botanico
Sei un appassionato di manga? vuoi avvicinarti a questa antica e moderna tecnica giapponese di narrazione? Segui il workshop di Federico Pace e scopri come realizzare personaggi ispirati allo stile grafico giapponese e come creare una storia accattivante!
Federico Pace ha studiato fumetto e manga alla Scuola Internazionale di Comics con Midori Yamane e vive e lavora a Roma. Ha pubblicato diversi manga in Italia, in particolare per Tora edizioni, ma è noto tra i giovani lettori del fumetto giapponese, anche per illustrazioni e autoproduzioni. Con il suo sguardo e la giovana voce, interpreta e traduce i grandi temi della nostra società.

I manga nella cultura giapponese
Manga si riferisce a due parole Kanji: “Man” che sta per “divertente”, “esagerato” e “Ga” che può essere interpretato come “disegno” o “immagine”. Quindi, il termine manga può essere definito come uno ” schizzo veloce “, un “disegno approssimativo” o un “fumetto”. Il manga ha particolari codici grafici , tra cui l’uso del bianco e nero e delle vignette. Rispetto ai libri occidentali, la direzione di lettura giapponese è invertita.
Esistono molti tipi di manga, adatti a diversi tipi di pubblico: manga di Komodo, un fumetto per bambini simile a Pokemon e Doraemon; manga shonen rivolto agli adolescenti, presenta le avventure di un eroe orfano e le sue battaglie (come in Naruto o Dragon Ball); manga shojo destinato principalmente alle ragazze, si concentra sulle storie d’amore e di amicizia di studentesse (come Nana); manga seinen per studenti o giovani adulti con argomenti più realistici di vari temi come (Death Note o L’attacco dei Titani); josei manga, la versione femminile del seinen (Citrus).

La storia dei manga
Le origini del manga risalgono agli emaki, i primi rotoli narrativi illustrati del periodo Nara dell’VIII secolo, e agli ehon, libri stampati ukyo-e del periodo Edo. Nel 1814 il famoso artista Hokusai, noto per la sua opera d’arte La grande onda di Kanagawa, usò il termine “manga” per esprimere l’idea di disegni catturati sul posto. Era una raccolta di illustrazioni – Hokusai manga– che includeva scene di vita quotidiana, paesaggi, elementi naturali, rappresentazioni della mitologia giapponese come gli spiriti giapponesi.
Durante il periodo Meiji, quando la politica di isolamento del Giappone giunse al termine, le influenze occidentali divennero sempre più forti. Fu l’inizio della modernizzazione giapponese, ispirata dai modelli economici e industriali occidentali cui seguì l’evoluzione sia dell’arte che delle altre forme di espressione.
Il primo vero manga fu pubblicato nel 1902. Un fumetto umoristico, pubblicato sul giornale Jiji Shinpō . Il suo autore, Rakuten Kitazawa , aveva illustrato “The Watered Sprinkler” , un famoso cortometraggio francese dei fratelli Lumière. Fu il primo a riutilizzare il termine manga dopo Hokusai. E per la prima volta apparve anche il termine mangaka .
Influenzato dalla stampa satirica anglosassone, fondò la sua rivista, la Tokyo Puck . Per le sue vignette feroci e numerose opere come Kodomo no tomo o Shōnen Kurabu (il club dei ragazzi), Kitazawa fu considerato uno dei fondatori del manga .
Negli anni ’40, i manga furono utilizzati a fini propagandistici dal governo giapponese. E solo dopo la seconda guerra mondiale, questo fenomeno esplose a causa dell’influenza dei fumetti americani. Il manga divenne un modo di evasione, soprattutto per coloro che dovevano affrontare grandi difficoltà.
Nel 1955, le edizioni si moltiplicarono e le librerie di fumetti si svilupparono in Giappone. Anche se il mercato dei manga era in piena espansione, veniva ancora criticato per essere un po’ infantile.
Due anni dopo, fu creato un nuovo stile che rifletteva realtà più oscure, mirato ai giovani adulti. Il manga gekiga fu inventato da Tatsumi Yoshihiro. Il mondo dei manga continuò a diversificarsi finta raggiungere il suo apice alla fine del XX secolo grazie alla sua massiccia diffusione.

Sapevi che l’Hanami dal periodo Edo (1603-1869) rappresentava un evento dove tutti, dai samurai ai contadini, dai mercanti ai feudatari, potevano godersi insieme un bel picnic? Qual è il motivo per cui le persone, in Giappone, si inchinano così frequentemente? E perché nessuno si soffia il naso in metropolitana? Dove e quando nasce la secolare arte del tatuaggio? E quella dei manga? Nonostante la conoscenza sempre più approfondita e dettagliata che abbiamo della cultura nipponica, sono ancora moltissime le peculiarità del popolo giapponese che molti di noi ignorano.

Una distanza che Kenta Suzuki, giapponese di nascita e italiano – anzi, romano – d’adozione, misura ogni giorno cercando di rispondere alle infinite domande che gli vengono sottoposte attraverso i suoi seguitissimi canali social. Curiosità e interrogativi che Kenta ha deciso di soddisfare mettendo assieme una vera e propria enciclopedia illustrata delle unicità e delle stramberie che rendono i giapponesi uno dei popoli più eccentrici e affascinanti del pianeta.
Kenta Suzuki con una media di 10 milioni di visualizzazioni al mese tra TikTok e Instagram,  è oggi il più grande influencer giapponese in Italia. Ma non si ferma ai social: organizza eventi di cultura giapponese, degustazioni di sake, cene tradizionali e tour autentici nel paese del sol levante

Marco Maovaz, responsabile dell’Orto Botanico del C.A.M.S. (Centro di Ateneo per i Musei Scientifici) all’ Università degli Studi di Perugia, ti accompagnerà in un lungo viaggio nel “Japonisme“.

Termine coniato dal critico d’arte Philippe Burty nel 1872 e da allora utilizzato per denominare l’influenza, in Occidente, della cultura giapponese in diversi settori quali l’arte, l’artigianato, la letteratura, il collezionismo, la musica e il teatro.

Il movimento del Japonisme, attivo alla fine del XIX secolo, stimolò l’interesse occidentale non solo per l’estetica giapponese ma anche per la progettazione dei giardini e il giardinaggio nipponico, con la complicità dei viaggi dei “giapponisti” nel Paese del Sol Levante e le esposizioni universali della seconda metà dell’Ottocento.

Silvana Mattei – Grandmaster della Scuola Ohara e Presidente dell’Ikebana Sakura Roma Ohara Chapter – con una dimostrazione che prevede la realizzazione di cinque diverse composizioni, ti accompagnerà in un viaggio attraverso le connessioni profonde tra l’ikebana della scuola Ohara e le arti e la cultura del Giappone.
Le composizioni create dialogheranno con la pittura Rimpa, cattureranno l’essenza fugace degli haiku, si rifletteranno nella semplicità della cerimonia del tè (Chabana), risuoneranno nelle linee nella calligrafia (Shodō) e incarneranno l’austera eleganza del Bujin.
Ogni composizione sarà una narrazione silenziosa, un’espressione che unisce arte, natura e spiritualità.

Domenica 13 aprile


Forest bathing all’Orto Botanico, stazione sperimentale urbana di terapia forestale. 
Il Forest Bathing o Shinrin Yoku, è una rigenerante pratica di terapia naturale che invita a rallentare, connettersi con la natura, liberare la mente, lasciarsi guidare solo dai sensi. Sarai guidato da Claudio Scintu in una passeggiata guidata, lenta e consapevole nel bosco di conifere, tra alberi di essenze diverse ma tutti con il potere di abbassare il cortisolo, riducendo lo stress e la pressione sanguigna. Con gli occhi chiusi sarai pronto ad annusare gli olii essenziali che si levano nell’aria,  respirare profondamente e radicarti al qui e ora.

Forest bathing e la relazione con la natura
La cultura giapponese sottolinea la necessità di armonia ed equilibrio nel rapporto tra uomo e natura perché siamo tutti parte dell’universo. E ciò si riflette nella vita quotidiana, nella comprensione degli altri esseri viventi o nella speciale devozione del popolo giapponese verso il cambiamento delle stagioni celebrato con Hanami in primavera o con il Momijigari in autunno. Ma soprattutto nell’ammirazione del mondo naturale e nella consapevolezza dei suoi poteri benefici.

Forest bathing e biofilia
L’idea dello shinrin yoku – basato su antiche pratiche scintoiste e buddiste – è di far entrare la natura nel corpo attraverso i cinque sensi per un immediato beneficio del corpo, della mente e dello spirito. Questo perchè noi esseri umani ci siamo evoluti nella natura ed è proprio lì che ci sentiamo più a nostro gio, anche se non ne siamo sempre consapevoli. È l’ipotesi biofilia. Abbiamo trascorso il 99,9% del nostro tempo nella natura e la nostra fisiologia è specificamente adatta a quel contesto. Nella vita quotidiana se i nostri ritmi sono sincronizzati con quelli dell’ambiente che ci circonda, ci sentiamo meglio.

Il Taiko No Koe all’Orto Botanico
Energia e vibrazioni, tra eleganza, potenza dei movimenti, sincronie, improvvisazioni.
Questo il “manifesto” del concerto-spettacolo di percussioni giapponesi del Gruppo Taiko, primo gruppo italiano di tamburi giapponesi. Ne fanno parte, Catia Castagna attrice e percussionista, Marilena Bisceglia percussionista e aikidoka e Daniela Anzellotti.
Eleganza e potenza dei movimenti, precisione nell’esecuzione con spazi dedicati a piccole e “giocose” improvvisazioni ma senza la pretesa di “essere giapponesi”.  Questa è una tecnica  “contaminata” dalle precedenti esperienze artistiche delle due percussioniste.

Il taiko nella cultura giapponese

Questa potente forma d’arte, vecchia di 12.000 anni, è stata una parte vitale della cultura giapponese per millenni. I taiko, letteralmente “grande tamburo”, venivano usati nelle feste locali, per dare inizio a cerimonie religiose, impostare il ritmo di marcia delle truppe in guerra o per incoraggiare  i soldati durante i combattimenti.
Si diceva infatti che i battiti del cuore si sincronizzassero con il ritmo del tamburo per aumentare la forza dei guerrieri. Il taiko scandiva  anche la vita quotidiana: annunciava il rientro dei cacciatori al villaggio, l’arrivo dei tifoni.  Nel suo suono rimbombante, gli antichi potevano percepire il potere della divinità.
Ancora oggi, il taiko rimane un fenomeno che cattura tutti i sensi. Quando viene colpito con forza, può produrre  un fragore che supera i 130 decibel,  paragonabile quasi al rumore di un jet. Il pubblico può sentire questo fragoroso battito vibrare in tutto il corpo, per un’esperienza immersiva e indimenticabile.
Vivere l’esperienza del taiko significa assistere a grida vivaci e movimenti coreografati da artisti che rispecchiano quelli di varie arti marziali giapponesi.
L’energia parte, trapassa e ritorna, in un circuito continuo, perché come dice il maestro Kurumaya Masaaki, la pelle del tamburo è uno specchio che riflette ciò che si fa, quindi se si suona con il cuore (kokoro) si trasmettono e si ricevono emozioni, facendo vibrare l’anima di chi ascolta.

Il Kendama all’Orto Botanico
Vuoi imparare a giocare con il kendama? Davide Leonardi, campione europeo e mondiale in kendama freestyle, è pronto a insegnare le basi e i primi trucchi di questo tradizionale gioco giapponese che da 400 anni, allena coordinazione, concentrazione e creatività.

Il Kendama nella cultura giapponese
Si potrebbero pensare che il kendama sia stato inventato in Giappone, ma in realtà non è così. Sebbene esistano teorie diverse, ci sono documenti che indicano che il kendama sia nato in Francia nel sedicesimo secolo.
Questo gioco era chiamato bilboquet. Bil significa “palla” e boquet significa “piccolo albero” ad indicare un gioco con una piccola palla di legno.

Si dice che il bilboquet sia stato portato in Giappone verso la metà del periodo Edo, intorno al 1777 o 1778. A quel tempo, il kendama era apparentemente apprezzato dagli adulti come una specie di gioco in cui un giocatore che commetteva un errore era costretto a bere di più.

Quando il Giappone entrò nell’era Meiji (1868-1912), il Ministero dell’Istruzione, della Scienza, dello Sport e della Cultura introdusse il kendama nel rapporto sull’istruzione dei bambini che aveva redatto nel 1876 e il gioco iniziò gradualmente a diffondersi tra i giovani.

Nel 1919, durante l’era Taisho (1912-1926), fu messo in vendita il precursore del kendama odierno. Si chiamava Nichigetsu Ball (palla sole e luna), perché la palla assomigliava al sole, mentre la forma delle tazze basse era come una luna crescente. Questo giocattolo ebbe un enorme successo e da quel momento fino all’inizio dell’era Showa (1926-1989), apparvero diversi tipi di kendama.

Dal 1945 al 1955 circa, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i kendama cominciarono ad essere venduti nei negozi di dolciumi insieme ad altri giocattoli popolari, come menko , bidama e beigoma.

Nel 1975, l’autore per bambini Issei Fujiwara fondò la Japan Kendama Association, che standardizzò il kendama per l’uso competitivo e creò regole standardizzate allo scopo di consentire a un maggior numero di persone di giocare insieme allo stesso modo. Con un set di regole e specifiche per l’attrezzatura in atto, il kendama ha iniziato a crescere in popolarità come sport competitivo.

Oggi la parola kendama è conosciuta in tutto il mondo e le competizioni si svolgono anche negli gli Stati Uniti e in Europa.

L’origami all’Orto Botanico
Vuoi scoprire l’arte tradizionale giapponese che trasforma un semplice foglio di carta in meravigliose creazioni tridimensionali? L’ Associazione Kanyukai  – fondata nel 2003 a Osaka, in Giappone e promotrice dal 2021 della cultura giapponese in Italia –  ti aspetta per insegnarti  questa antica pratica, originariamente nata per la decorazione di templi e santuari.

L’origami nella cultura giapponese
La parola origami deriva da “ori”,  piega, e “kami”, a carta. L’origami è l’affascinante pratica giapponese di trasformare la carta in forme intricate che spesso raffigurano vari oggetti, come fiori o uccelli. Oltre alla sua arte, il fascino dell’origami risiede nella sua filosofia estetica unica. Celebrando il minimalismo nell’arte, riflesso nel termine shibumi (渋味), l’arte dell’origami trasforma il modesto in bello. Il washi, fragile ma temporaneo, rispecchia la vita e gli artisti dell’origami si sforzano di catturarla in forme tangibili, orientandosi verso oggetti naturali piuttosto che inanimati.
 Ispirandosi alla ricca tradizione estetica giapponese, realizzano straordinari origami, dinamici e realistici al tempo stesso: una vera e propria espressione artistica di alto livello.

La storia dell’origami
Il viaggio dell’origami risale all’introduzione della carta in Giappone, che si ritiene sia avvenuta subito dopo la sua invenzione in Cina. I monaci buddisti, imprenditori e visionari, importarono tecniche e prodotti per la fabbricazione della carta durante il periodo Heian (794-1185). Inizialmente riservato a scopi religiosi a causa dell’elevato costo della carta, l’origami si diffuse rapidamente, diventando una pratica culturale. I nobili Heian elevarono questa forma di artigianato ad una vera e propria arte, utilizzando  carta washi dipinta a mano o stampata, per incartare i regali. Nella corte imperiale, l’origami si trasformò in un’attività ricreativa elegante e divertente, permeando infine la vita di tutti i giorni.

I benefici dell’origami
Praticare l’origami si rivela un’attività benefica e salutare per il benessere sia mentale che fisico. La natura meditativa  del piegare la carta non solo serve come antistress, ma contribuisce anche a migliorare la coordinazione occhio-mano. L’aspetto creativo dell’origami favorisce una spinta alla creatività, mentre la pazienza e la perseveranza richieste per padroneggiare pieghe intricate facilitano la propria resilienza. Inoltre, il valore educativo dell’origami è degno di nota, poiché promuove l’apprendimento attraverso la padronanza di diverse tecniche di piegatura.

Il Kamishibai è un antico strumento di comunicazione discendente dalla tradizione dei monaci buddisti e dei loro rotoli di stoffa con cui diffondevano la religione in Giappone fin dal XII secolo a.C. In sella a biciclette, tra gli anni ‘20 e gli anni ‘60 del secolo scorso, frotte di narratori giravano di villaggio in villaggio portando svago a buon mercato ai bambini che trovavano in questo teatrino l’unico diversivo in un periodo di grande crisi del paese nipponico.

Lucia D’Amato con il suo teatrino itinerante racconterà storie antiche e moderne.

I manga all’Orto Botanico
Sei un appassionato di manga? vuoi avvicinarti a questa antica e moderna tecnica giapponese di narrazione? Segui il workshop di Federico Pace e scopri come realizzare personaggi ispirati allo stile grafico giapponese e come creare una storia accattivante!
Federico Pace ha studiato fumetto e manga alla Scuola Internazionale di Comics con Midori Yamane e vive e lavora a Roma. Ha pubblicato diversi manga in Italia, in particolare per Tora edizioni, ma è noto tra i giovani lettori del fumetto giapponese, anche per illustrazioni e autoproduzioni. Con il suo sguardo e la giovana voce, interpreta e traduce i grandi temi della nostra società.

I manga nella cultura giapponese
Manga si riferisce a due parole Kanji: “Man” che sta per “divertente”, “esagerato” e “Ga” che può essere interpretato come “disegno” o “immagine”. Quindi, il termine manga può essere definito come uno ” schizzo veloce “, un “disegno approssimativo” o un “fumetto”. Il manga ha particolari codici grafici , tra cui l’uso del bianco e nero e delle vignette. Rispetto ai libri occidentali, la direzione di lettura giapponese è invertita.
Esistono molti tipi di manga, adatti a diversi tipi di pubblico: manga di Komodo, un fumetto per bambini simile a Pokemon e Doraemon; manga shonen rivolto agli adolescenti, presenta le avventure di un eroe orfano e le sue battaglie (come in Naruto o Dragon Ball); manga shojo destinato principalmente alle ragazze, si concentra sulle storie d’amore e di amicizia di studentesse (come Nana); manga seinen per studenti o giovani adulti con argomenti più realistici di vari temi come (Death Note o L’attacco dei Titani); josei manga, la versione femminile del seinen (Citrus).

La storia dei manga
Le origini del manga risalgono agli emaki, i primi rotoli narrativi illustrati del periodo Nara dell’VIII secolo, e agli ehon, libri stampati ukyo-e del periodo Edo. Nel 1814 il famoso artista Hokusai, noto per la sua opera d’arte La grande onda di Kanagawa, usò il termine “manga” per esprimere l’idea di disegni catturati sul posto. Era una raccolta di illustrazioni – Hokusai manga– che includeva scene di vita quotidiana, paesaggi, elementi naturali, rappresentazioni della mitologia giapponese come gli spiriti giapponesi.
Durante il periodo Meiji, quando la politica di isolamento del Giappone giunse al termine, le influenze occidentali divennero sempre più forti. Fu l’inizio della modernizzazione giapponese, ispirata dai modelli economici e industriali occidentali cui seguì l’evoluzione sia dell’arte che delle altre forme di espressione.
Il primo vero manga fu pubblicato nel 1902. Un fumetto umoristico, pubblicato sul giornale Jiji Shinpō . Il suo autore, Rakuten Kitazawa , aveva illustrato “The Watered Sprinkler” , un famoso cortometraggio francese dei fratelli Lumière. Fu il primo a riutilizzare il termine manga dopo Hokusai. E per la prima volta apparve anche il termine mangaka .
Influenzato dalla stampa satirica anglosassone, fondò la sua rivista, la Tokyo Puck . Per le sue vignette feroci e numerose opere come Kodomo no tomo o Shōnen Kurabu (il club dei ragazzi), Kitazawa fu considerato uno dei fondatori del manga .
Negli anni ’40, i manga furono utilizzati a fini propagandistici dal governo giapponese. E solo dopo la seconda guerra mondiale, questo fenomeno esplose a causa dell’influenza dei fumetti americani. Il manga divenne un modo di evasione, soprattutto per coloro che dovevano affrontare grandi difficoltà.
Nel 1955, le edizioni si moltiplicarono e le librerie di fumetti si svilupparono in Giappone. Anche se il mercato dei manga era in piena espansione, veniva ancora criticato per essere un po’ infantile.
Due anni dopo, fu creato un nuovo stile che rifletteva realtà più oscure, mirato ai giovani adulti. Il manga gekiga fu inventato da Tatsumi Yoshihiro. Il mondo dei manga continuò a diversificarsi finta raggiungere il suo apice alla fine del XX secolo grazie alla sua massiccia diffusione.

Lo shodō all’Orto Botanico
Vuoi scrivere il tuo nome in giapponese? o una parola che evoca un sentimento, un’emozione? Le Maestre calligrafe dell’Associazione Tondo Rosso – scuola di lingua e cultura giapponese a Roma e online da più di 15 anni –  ti mostreranno la scrittura shodō.

Il termine giapponese è spesso tradotto come “il modo della scrittura artistica o della bella scrittura” o come “l’arte della calligrafia tradizionale giapponese”. Ma è molto più di questo.
La pratica dello Shodo non è la semplice pratica dello scrivere qualcosa a mano in modo elegante e raffinato affinchè ogni parola sia unica e piacevole alla vista. Racchiude una profonda esplorazione dell’espressione artistica radicata nella cultura giapponese. È una vera e propria arte.

Il termine shodō 書道  significa “via della scrittura”, dove 書sho indica “la scrittura” e il carattere 道 è tradotto come “via, percorso”. Sottolinea la pratica di un’arte che richiede un impegno costante e che assume le caratteristiche di un “percorso”. Tale via conduce il praticante, tramite un perfezionamento tecnico, soprattutto ad un affinamento interiore. L’artista crea un’opera d’arte con un pennello di bambù, inchiostro e carta, dove egli trasferisce armonia e bellezza. Quindi, non si tratta solo di bella calligrafia, ma anche di tracciare dei tratti traferendo in essi la forza dell’artista e del suo spirito.

Lo shodō nella cultura giapponese
Lo shodō ebbe origine in Cina e sviluppò tutte le sue forme base entro la fine della dinastia Han nel 220 d.C. Fu poi introdotto in Giappone durante il VI secolo d.C. Si dice che lo shodo abbia guadagnato popolarità quando il buddismo fu introdotto in Giappone dalla Cina e i caratteri cinesi furono usati per copiare i mantra buddisti.
Questa trascrizione di caratteri, nota come shakyō, era considerata una forma di meditazione e la pratica portò alla diffusione della calligrafia all’epoca.
Nel profondo, la filosofia dello shodō trae ispirazione dal buddismo zen, sottolineando il ruolo fondamentale della consapevolezza e della concentrazione. Queste qualità essenziali sono fondamentali per la pratica della calligrafia e risuonano profondamente nel regno della meditazione.
Durante il periodo Edo, gli insegnamenti del Bushido, o la via del guerriero, ponevano la stessa enfasi sullo shodō e sulla letteratura come sulla guerra e sulle tattiche. Si credeva anche che lo shodō fosse un’espressione diretta della vera natura dello scrittore, in altre parole, i personaggi e lo scrittore diventavano una cosa sola.
Lo shodō svolge un ruolo molto importante in Giappone, dove i suoi caratteri sono considerati dotati di una sorta di potere spirituale. In Giappone, la pratica di scrivere caratteri con pennello e inchiostro è parte integrante da secoli. Originariamente considerata essenziale per comprendere la letteratura classica e le credenze buddiste, si è evoluta in un mezzo per sviluppare la disciplina mentale.
Oggi, molti praticanti vedono lo shodō come un’attività terapeutica e meditativa, che offre un modo per rilassarsi e raggiungere la concentrazione manipolando un semplice pennello di bambù. Ogni carattere diventa un’espressione unica, plasmata da aggiustamenti di pressione, angolazione del pennello, velocità del tratto e flusso di inchiostro. L’arte si estende oltre la trasmissione del significato attraverso il linguaggio; incapsula l’emozione e riflette lo spirito dello scrittore, creando un’armoniosa miscela di estetica giapponese e arte linguistica.

Creazione di vasi per Shitakusa e Ikebana all’Orto Botanico
Vuoi avvicinarti all’arte della ceramica giapponese? Con la ceramista Rosa Turco di Kansoceramica scoprirai l’ antichissima tecnica tebineri e vedrai come si realizzano piccoli vasi per shitakusa (le erbette da compagnia per i bonsai nel tokonoma) e per ikebana. E se vorra,  potrai cimentarti nella creazione di un piccolo oggetto.

La tecnica tebineri
La tecnica tebineri è uno stile primitivo che rinuncia al lancio dell’argilla sulla ruota da vasaio e si affida principalmente alle dita per la modellazione, senza l’ausilio di altri utensili. Sebbene non permetta la realizzazione di opere di grandi dimensioni, consente di creare oggetti dalla bellezza rustica ma soprattutto di connettersi in maniera più diretta con l’argilla e con la propria immaginazione.

Kokedama all’Orto Botanico
Forse già saprai cos’ è un kokedama, ma forse non conoscerai il metodo tradizionale di giapponese con la quale viene creata. Con Kokedamanti scoprirai i segreti di questa antica arte che prevede l’utilizzo di un terriccio (Ketotsuchi) e una argilla (Akadama) particolari, perfette per questa coltivazione. Farai un salto nella storia del Giappone nel periodo Edo. Imparerai quali sono i materiali e le piante più adatte, come curarle e gestirle.

I kokedama nella cultura giapponese
Le Kokedama, o “palla di muschio”, è un’antica forma d’arte giapponese derivata dalla pratica del bonsai. La bellezza delle radici esposte del bonsai, che accumulano muschio nel tempo, è stata l’ispirazione dietro il kokedama. Era colloquialmente chiamato “il bonsai del povero” perchè un modo più semplice e conveniente per le persone di godersi la tranquillità di un giardino giapponese nelle loro case.
Il concetto di kokedama è nato come una forma di connessione con la foresta per i giapponesi che si spostavano dalle campagne e andavano a vivere in città. La mancanza di vasi artificiali attorno alla pianta imita gli ambienti naturali in cui crescono le piante e incarna l’idea di madre natura come autosufficiente. Nella cultura giapponese, il muschio simboleggia la longevità, qualcosa che prospera nel tempo ed è in armonia con l’ambiente circostante.
Queste sfere di natura sono un perfetto riflesso del wabi-sabi  che si traduce liberamente come trovare la bellezza nelle imperfezioni naturali. Creata a mano, una palla di terra deforme che racchiude una pianta asimmetrica viene poi avvolta nella coperta della natura. Questa antica forma d’arte si è nel tempo evoluta.
Le persone hanno sperimentato diversi modi per esporre le loro palle di muschio, sospendedole in aria o poggiandole su terrari.
Gli studi hanno dimostrato che come molte piante da interno anche le kokedama possono assorbire anidride carbonica, rilasciare ossigeno tramite fotosintesi e rimuovere gli inquinanti.

Le bambole kokeshi all’Orto Botanico
Dalle antiche kokeshi della regione del Tōhoku alle creazioni moderne della prefettura di Gunma, dagli omiyage kokeshi (souvenir) ai grandi maestri del dopoguerra. Esplora il mondo magico delle bambole kokeshi, un’antica pratica popolare intrisa di arte e spiritualità. E scopri come si è trasformata fino ai giorni nostri. Ad accompagnarti in questo viaggio, KimonoFlaminia, un negozio on line nato dalla passione della sua fondatrice per il Giappone e specializzato in arte, moda e design del Sol Levante. Collabora con istituzioni, musei, teatri, costumerie di cinema.

Le bambole kokeshi nella cultura giapponese
Le bambole Kokeshi hanno un profondo significato simbolico nella cultura giapponese. Intagliate nel legno, simboleggiano tradizionalmente buona fortuna, protezione e un augurio per la crescita sana di un bambino. Le loro forme semplici e arrotondate e i disegni dipinti a mano riflettono purezza e fascino, catturando il calore del patrimonio artistico giapponese. Per molti, possedere una bambola Kokeshi rappresenta un legame con la tradizione giapponese e un simbolo di positività e benessere.

Le bambole Kokeshi non hanno alcun legame formale con la religione shintoista o organizzata, ma poiché la spiritualità della regione è sempre stata intrinsecamente connessa con le foreste, il culto della natura e l’animismo, queste bambole di legno erano senza dubbio un’importante ancora di vita nei villaggi di montagna.

Hanno avuto origine nella regione di Tohoku, nel Giappone settentrionale, durante il periodo Edo (1603-1868). Gli artigiani di questa zona, noti per le loro abilità nella lavorazione del legno, iniziarono a realizzare queste bambole di legno uniche come giocattoli per bambini. Nel tempo, le Kokeshi sono diventate una forma d’arte celebrata per la loro bellezza minimalista. Ogni regione di Tohoku ha portato il proprio stile e le proprie varianti alle bambole, aggiungendo diversità e fascino da collezione. Oggi, le Kokeshi sono amate sia come artefatti culturali che come simboli dell’artigianato duraturo del Giappone.

Esistono undici tipi principali di bambole Kokeshi tradizionali, ciascuna delle quali presenta caratteristiche uniche che riflettono il patrimonio culturale della sua regione. Originariamente create come souvenir nelle città termali giapponesi di Tohoku dagli artigiani locali, le bambole Kokeshi catturano il fascino e lo spirito delle loro aree. Ogni tipo ha il suo stile, forma e motivi dipinti distinti, che rappresentano le tradizioni della sua specifica regione.

“Il sentiero che porta alla casa del tè” di Veronique Brindeau è 
una raccolta di quattro saggi che, pur distinti, si intrecciano in un’armonia narrativa, esplorando temi come il rito del tè, l’arte del bonsai, i giardini abbandonati e l’integrazione paesaggistica tra natura e architettura sacra. Ogni capitolo è una finestra su un universo simbolico che invita alla riflessione e alla contemplazione, con uno stile che bilancia poesia e rigore analitico.

È un’opera che invita il lettore a un’esperienza sensoriale, intellettuale e spirituale.

Véronique Brindeau, con la sua scrittura poetica e densa di significato, ci guida attraverso giardini che non sono solo luoghi fisici, ma anche metafore di un cammino interiore. Ogni pagina è un invito a rallentare, a osservare il mondo con occhi nuovi e a riflettere sull’essenza della vita.

Grazie alla sua profondità e alla sua bellezza, questo libro si rivolge tanto agli appassionati di cultura giapponese quanto a chiunque cerchi una pausa contemplativa nella frenesia del quotidiano. Un’opera da gustare lentamente, come un rituale, lasciandosi ispirare dal senso di armonia che ne emerge.

«Il sentiero che porta alla casa del tè – titolo di questa raccolta – è l’immagine perfetta della Via: la prepara e la riassume  […] Il cammino del tè è attenzione e presenza. Passo dopo passo, ad ogni passo si è già alla meta, e i piedi calpestano la Terra pura (jo do), quel regno della grazia che per lo zen si apre nel qui ed ora.  Anche se rappresenta un pellegrinaggio montano, questo cammino spesso è davvero corto – come brevi sono i quattro scritti qui riuniti – ma è un vero viaggio quello richiesto al visitatore e nel nostro caso al lettore, invitato a imboccare un sentiero che potrebbe portare al di là del tempo e dello spazio».

Presentano il libro, Lorenzo Casadei (traduttore e curatore) e Pasqualino Donato, curatore e responsabile del  Giardino giapponese dell’Orto Botanico 

«Il Giappone è uno dei Paesi, se non il Paese al mondo che ha saputo meglio interpretare la contemporaneità. Da un lato risponde sapientemente ai problemi della globalizzazione e della società di massa: ha sviluppato un’intelligenza organizzativa superiore a quella di qualsiasi altro Paese, un funzionamento dei mezzi di trasporto vicino alla perfezione, metropoli pulite come villaggi sulle Alpi svizzere quasi totalmente prive di fenomeni di microcriminalità, una burocrazia a volte anche ottusa – lo sono tutte – ma in linea di massima efficiente e gentile. Dall’altro ha sviluppato un linguaggio artistico capace di esprimere le angosce e le aspirazioni della vita contemporanea in modo incisivo, comprensibile e comunicabile come oggi non avviene altrove. (…) Per queste ragioni il Giappone non ci appare più marginalizzato nella sua dimensione esotica fatta di fascinosi enigmi, ma anzi sembra possedere le chiavi giuste non per trovare la felicità – come il proliferare di manuali self help in salsa giapponese vorrebbe farci credere – ma per gestire il presente e anche per aiutarci ad attraversare lo specchio della realtà e attivare la nostra dimensione immaginativa». da Iro Iro. Il Giappone tra pop e sublime di Giorgio Amitrano

Giorgio Amitrano è uno dei massimi nipponisti italiani. Per quattro anni direttore dell’Istituto di Cultura italiana a Tokyo, e attualmente titolare della cattedra di Lingua e letteratura giapponese all’Università degli studi di Napoli L’Orientale, Amitrano è il traduttore di autori come Yoshimoto Banana, Murakami Haruki, Kawabata Yasunari, Miyazawa Kenji.

Tommaso Scotti è nato a Roma ma vive e lavora in Giappone dal 2012. Ha conseguito un dottorato in matematica applicata a Tokyo nel 2015, a seguito del quale ha iniziato a lavorare nell’ambiente delle tecnologie finanziarie e pubblicitarie. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo L’Ombrello dell’Imperatore (Longanesi). Suona il pianoforte e pratica arti marziali.

Un talk dedicato bambole kokeshi in compagnia di Alessandro Servidio di KimonoFlamina, che racconterà storia, evoluzione di questa antichissima arte e dei suoi più famosi creatori. Alessandro è uno studioso di kokeshi vintage, rare e d’autore, passione che lo porta  spesso in Giappone a conoscere personalmente gli artigiani che hanno contribuito a rendere questi manufatti artigianali, vere e proprie opere d’arte.

La storia delle kokeshi
Le kokeshi sono bambole di legno nate nella regione del Tohoku, nel nord-est del Giappone, probabilmente già all’inizio del 1800. Originariamente realizzate dai tornitori (kijishi) come giocattoli per bambini, divennero presto souvenir popolari venduti nelle onsen (stazioni termali). Oltre alla loro funzione ludica, le kokeshi furono utilizzate come portafortuna, in particolare per proteggere la salute e il raccolto.

Le kokeshi tradizionali (dento kokeshi) si possono raggruppare in una decina di scuole regionali, ciascuna con le proprie caratteristiche che le distinguono l’una dall’altra, ma seguono sempre stili rigorosi che vengono tramandati di generazioni in generazione.

Intorno agli anni ’50, tuttavia, una nuova generazione di artigiani iniziò a rompere con la tradizione, dando vita alle kokeshi moderne o creative (sōsaku kokeshi). Queste bambole si distinsero dalle versioni tradizionali per la libertà espressiva, la sperimentazione di nuove forme e l’uso innovativo del colore. A differenza delle kokeshi classiche, strettamente legate alla loro regione d’origine, le sōsaku kokeshi potevano essere create in tutto il Giappone, anche se una maggiore concentrazione di artigiani si registrò nella prefettura di Gunma, nella regione di Kantō.

Le kokeshi creative introdussero nuove tecniche di lavorazione, combinando diversi tipi di legno per esaltare contrasti cromatici e texture naturali. Gli artisti sperimentarono con forme più complesse, dettagli scolpiti, elementi decorativi dipinti o incisi. Alcune bambole presentavano un design astratto, altre richiamavano temi della vita quotidiana, della poesia e del passare delle stagioni. Questo rinnovamento trasformò le kokeshi da manufatti artigianali e folkloristici a vere e proprie opere d’arte, apprezzate dai collezionisti di tutto il mondo.

Tuttavia, nonostante la crescente popolarità (non solo in Giappone ma ormai in tutto il mondo), la manifattura delle kokeshi, sia moderne che tradizionali, è oggi a rischio. Il numero di artigiani è in diminuzione, e sempre meno giovani scelgono di dedicarsi a quest’arte, a causa della lunga formazione richiesta e della concorrenza della produzione industriale.

Inoltre, il declino del turismo nelle regioni di origine (in particolare nel Tohoku dopo lo tsunami del 2011) ha ridotto le vendite, mettendo in difficoltà molti laboratori artigianali. Tuttavia, grazie all’interesse crescente di collezionisti e appassionati, e all’impegno degli artigiani, la speranza di preservare e rinnovare questa forma d’arte resta viva. Le kokeshi moderne continuano a raccontare una storia di tradizione e innovazione, rappresentando una delle espressioni più affascinanti dell’artigianato giapponese.

L’ haiku, poesia tradizionale che si è sviluppata in Giappone a partire dal XVII secolo che conta ancora oggi in patria migliaia di estimatori e poeti affiliati ad innumerevoli scuole.  La sua brevità – soltanto diciassette sillabe – e l’apparente facilità delle regole che lo governano, lo rendono accessibile anche ai poeti occidentali che, a partire da Ungaretti per arrivare a Zanzotto, Silvio Ramat, Valentino Zeichen o Bianca Maria Frabotta – solo per citarne alcuni – non hanno esitato a cimentarvisi.
Una semplicità fittizia: in realtà, oltre alla divisione fissa delle sillabe secondo un ritmo che vede 5 sillabe nel primo verso, 7 nel secondo e 5 nell’ultimo, una pausa nel ritmo e una parola che indichi la stagione – condizioni senza le quali non si può parlare di haiku classico – questa piccola poesia mantiene in sé la capacità di ricollegarsi a fenomeni universali travalicando l’immagine o la scena che ci presenta.

A guidarci tra le trame di questa forma poetica, Cristina Banella, traduttrice, ricercatrice ed insegnante di lingua giapponese, ha conseguito un dottorato di ricerca all’Università di Roma ‘La Sapienza’ con una tesi comparatistica sullo haiku moderno e premoderno. Oltre ai suoi lavori di ricerca sullo haiku e sulla poesia italiana reperibili in rete, contribuisce con i suoi articoli alla rivista d’arte Pioggia Obliqua. Ha inoltre tradotto in giapponese l’opera di Donatella Bisutti “Duet of Water”. Attualmente continua ad affiancare all’attività di insegnamento della lingua giapponese quella di ricerca sullo haiku del Novecento, concentrandosi in particolar modo sul fenomeno della nascita dello haiku femminile in Giappone.

Il talk è a cura di Associazione Tondo Rosso, scuola di lingua e cultura giapponese a Roma e online da più di 15 anni.

Silvana Mattei – Grandmaster della Scuola Ohara e Presidente dell’Ikebana Sakura Roma Ohara Chapter – con una dimostrazione che prevede la realizzazione di cinque diverse composizioni, ti accompagnerà in un viaggio attraverso le connessioni profonde tra l’ikebana della scuola Ohara e le arti e la cultura del Giappone.
Le composizioni create dialogheranno con la pittura Rimpa, cattureranno l’essenza fugace degli haiku, si rifletteranno nella semplicità della cerimonia del tè (Chabana), risuoneranno nelle linee nella calligrafia (Shodō) e incarneranno l’austera eleganza del Bujin.
Ogni composizione sarà una narrazione silenziosa, un’espressione che unisce arte, natura e spiritualità.

Tutte le attività sono gratuite e si prenotano sul posto
Orari di apertura: 9:00 – 18:30
Tel. 06 94844234

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